Storie di città – Intervista a Luciano e Ricciardo Artusi

Le storie più belle e ricche di tradizione sono quelle che nascono e prendono vita nelle strade, nelle vie più popolari e negli angoli più nascosti delle città. Odori, volti, personaggi e leggende verosimili, segnano tutte quel piacevole confine tra realtà e fantasia narrativa, che rende inevitabilmente unico un determinato luogo nel tempo. In occasione della recente pubblicazione degli otto volumi sulla storia delle principali piazze fiorentine, a cura di Luciano e Ricciardo Artusi per la Giorgi Editore, considerando il valore storico e lo studio approfondito sulle curiosità e le tradizioni che rendono unica la città di Firenze, ci siamo intrattenuti in una piacevole conversazione con gli autori dei volumi sulle tipicità e i cambiamenti che nel corso dei secoli hanno accompagnato lo sviluppo di Firenze.

Gentili Luciano e Ricciardo, come nasce questo progetto editoriale sulle piazze fiorentine e perché è diviso in 8 parti?
L: Direi che il tutto prende vita grazie alla volontà non tanto di insegnare, quanto di informare i fiorentini sulla storia della loro città, mettendo al centro le stesse curiosità che animano i racconti, che altro non sono che parte della storia, seppure in modo minore. Attraverso questo studio cerchiamo di spiegare i modi di vivere dell’epoca, addentrandoci nei luoghi tipo della città e dando una connotazione anche ai vari personaggi che li hanno abitati e vissuti. Siamo così partiti in questa avventura racchiusa in 8 libri, ognuno per una specifica piazza fiorentina. È stato un percorso piacevolissimo che spero permetta ai fiorentini, che magari dalla nascita sono sempre passati da un certo posto e non lo hanno mai osservato per bene, di arrivare a scoprire attraverso i libri, tante piccole cose legate alla tradizione del posto e della propria città.

La curiosità come elemento di tipicità. Come è possibile anche al di là di un progetto editoriale, tramandare alle nuove generazioni questa cultura del luogo e del vivere la piazza?
R: Immagino proprio percorrendo a piccoli passi il territorio e facendo amare con degli spunti ogni angolo della città che conserva in sé una propria storia. Faccio un esempio: come diceva Luciano, i fiorentini passano ripetutamente da un posto, ma se poi qualcuno non gli indica una cosa specifica, magari non se ne accorgono nemmeno. Io stesso ho vissuto questo paradosso in prima persona, nello specifico in via de’ Ginori 14, in un portone antico di un palazzo che era in passato appartenuto alla famiglia Ginori e poi acquistato dai Riccardi. Quante persone nel corso degli anni saranno passate di li. Ecco dalla vernice si riusciva a intravedere uno strano profilo, che dopo aver accuratamente studiato, si è rivelato essere una delle antiche buchette del vino. Ho chiesto così la possibilità di fare subito un saggio e liberandola dalla vernice è venuta fuori la classica porticina che un tempo permetteva la vendita del vino al dettaglio dall’interno del palazzo, ad opera delle famiglie nobili, verso le persone che vi si recavano munite dell’apposito fiasco.

Volevo appunto arrivare a descrivere questa realtà legata all’arte minore dei vinattieri.
L: Come diceva Ricciardo circa la buchetta del vino nel portone, queste sono eccezioni se non rarità e ne troviamo davvero poche per tutta Firenze, non più di 4/5. Le altre che troviamo per la città sono tutte nelle pareti e nelle facciate dei palazzi. L’uso più frequente era appunto quelle della vendita del vino al minuto attraverso i cortili delle cantine, direttamente all’acquirente. Quando poi non c’era questa possibilità non ci si scoraggiava e si andava a ricavare l’apposita fessura addirittura nei portoni dei Palazzi, come nel caso di via de’ Ginori, oppure come è successo per un’altra buchetta particolare, che si trova dietro il Duomo nel portone vicino a quella che era la bottega di Donatello.

Una cosa che emerge nei libri è come Firenze capitale abbia effettivamente inciso, possiamo dire in negativo, sulla tipicità della città stravolgendone le forme. Siamo ora seduti in quella che era l’allora Piazza del Mercato Vecchio, dove i vicoli caratteristici erano poi affiancati dalla Loggia del Pesce disegnata dal Vasari attualmente ricostruita in Piazza de’Ciompi. Cosa pensate voi di come sarebbe potuta essere ora Firenze, se avesse conservato nel passaggio alla capitale, le sue mura e anche in questa Piazza le sue forme e la sue particolarità?
R: Sarebbe stata un documento vivente reale. In effetti l’intervento del Poggi per Firenze capitale, lo smantellamento del centro e l’abbattimento delle mura, non è stato in generale reputato molto sensato. Poteva essere fatto in un altro modo. In quel momento si voleva far assomigliare Firenze alle altre capitali d’Europa, con le strade e i viali in stile Parigi. Questo scempio ci porta ad osservare le caratteristiche architettoniche e artistiche legate all’allora Ghetto di cui queste strade facevano parte, solo attraverso i documenti d’archivio, le mappe, le fotografie e qualche disegno e opera d’arte di qualche artista del periodo. Un vero peccato.

L: Rimanendo su quello che diceva Ricciardo sulla distruzione delle mura e lo stravolgimento del centro storico, io dico sempre che Firenze nella sua storia ha vissuto tre grosse disgrazie: l’alluvione, la guerra e Firenze capitale. Il Poggi, architetto idraulico a cui vanno dati tutti i meriti per aver realizzato il viale dei Colli e creato il Piazzale Michelangelo, penso vada solo criticato per aver distrutto le mura della città. Quando si prese in considerazione l’idea di creare i viali di circonvallazione, non capirò mai perché questi non siano potuti nascere esterni alle mura stesse. Prendiamo ad esempio Lucca e Siena dove le mura non creano alcun disagio, ma invece sono un inestimabile cornice per la città. Noi invece a Firenze abbiamo solo le Porte che segnavano l’ingresso in città, ormai avulse, che rappresentano solo una magra consolazione.

R: Sapevi che a tal proposito c’era in quel periodo a Firenze una grande concentrazione di cittadini inglesi? Quando fu scelto di abbattere le mura, pensa che furono tra i primi a coalizzarsi per fare un esposto contro il Poggi, al fine di impedirgli di abbattere il Ghetto e lasciare intatta la cinta muraria della città. Come sappiamo ahimè non vi riuscirono.

Venendo alle tradizioni, cuore di questo progetto editoriale, era previsto in periodo pasquale, con lo sviluppo della processione del fuoco sacro per la città, anche un secondo scoppio del Carro giusto?
L: Il secondo scoppio del carro fu fatto solo per due anni. Nel 1902 successe una disgrazia a seguito di un anomalo innesco delle cariche pirotecniche, per cui da quell’anno ci si limitò al solo scoppio del carro la mattina di pasqua tra il Battistero e la porta centrale del Duomo. Questa tradizione è una delle più antiche della città e nasce precisamente con le Crociate e la presa di Gerusalemme dalla figura di Pazzino de’Pazzi. Da quel momento si è creata una continuità nel tempo che tutt’ora vive in città ed è vissuta a pieno dai Fiorentini come seconda tradizione in linea temporale. La prima risulta attualmente il gioco del Calcio Storico Fiorentino nato ai tempi della Fiorenza romana.

Sempre per quanto riguarda lo scoppio del carro, la tradizione della colombina vuole che questa partendo dall’altare e tornando indietro senza intoppi, sia sinonimo di buon auspicio…
L: Si, innescando il fuoco del carro e tornando nuovamente all’altare, il suo volo era interpretato come buon presagio al raccolto. Di questa tradizione sappiamo più o meno tutto, l’unica data incerta è l’anno di origine del Fuoco Santo attraverso il carro impropriamente detto “Brindellone”.

Come mai impropriamente?
L: Perché in origine il Brindellone era il nome del carro della Zecca usato per i festeggiamenti di San Giovanni venivano portati in dono i ceri al Battistero in una processione che coinvolgeva anche le città dell’allora dominio come i comuni di Pescia, Barga e Montopoli. Le stesse istituzioni più importanti di Firenze avevano il loro carro personale e così la Zecca, famosa per il conio del “Fiorino”, moneta che da un lato aveva il giglio di Firenze e dall’altro lo stemma di san Giovanni Battista. La parte finale del carro della Zecca,  vedeva salire sulla sommità del carro, un uomo vestito di pelle di cammello, che reggendosi a una croce in ferro impiantata nella base, aveva il compito di personificare la figura di San Giovanni per le vie della città. La parola brindellone venne così data alla figura dell’uomo e del carro nel suo insieme, che appunto tentennando dalla cima, dava l’idea visto dal basso, di una figura alta e traballante, tale da assumere il nomignolo di brindellone fiorentino.
Finita l’usanza della processione dei ceri il 24 giugno, rimase a Firenze solo il carro del “fuoco della processione pasquale” che i fiorentini per ormai assonanza e ricordo bonario della processione, iniziarono a chiamare con lo stesso nome di quello precedente.

Altre curiosità sullo scoppio del carro?
L: Mentre per il carro non sappiamo ricollegare il periodo preciso della sua origine, sappiamo invece che l’innovazione della colombina ad incendiare il carro, nacque grazie alla volontà di papa Leone X, che resse il papato dal 1513 al 1521, ne viene da se che l’arco temporale in cui si studiò questa soluzione è pressappoco quello. Il Papa volle dare attraverso questa novità un significato più profondo nella figura della colombina, vista come lo spirito santo che va ad incendiare il fuoco benedetto, che al canto del Gloria viene poi dato con lo scoppio del carro a tutti i cittadini e agli astanti la festa.

Passando di tradizione in tradizione, durante lo scoppio del carro viene fatta anche l’estrazione delle partite del torneo del calcio storico. Come è possibile riuscire a far vivere maggiormente questa tradizione ai fiorentini, coinvolgendo maggiormente i cittadini rispetto alle singole persone che lo giocano? Come si può arrivare ad una maggiore vaolrizzazione di questo retaggio storico?
R: Secondo me bisognerebbe partire dalle scuole elementari, dedicando alcune ore sia dal punto di vista storico che civile, alle tradizioni della propria città. Raccontare, descrivere e riportare le informazioni sul contesto storico e sulla partita che ha permesso l’incontro e la nascita di questa tradizionale gioco, nato a cavallo dell’assedio di Firenze del 1529/30. Sono sicuro che questo potrebbe essere un ottimo inizio. Il passo successivo per il definitivo sviluppo della tradizione nei quartieri potrebbe essere quello di intervenire,  insegnando a giocare di più le partite con la palla al piede e meno con le mani, limitando così anche la violenza che purtroppo adesso è presente in larga parte in campo.

L: Alla nostra generazione è mancato l’insegnamento, tramandato per via orale di chi partecipava al gioco di allora. Mentre per il palio di Siena non ci sono state interruzioni, rimanendo così la realtà legata al tessuto sociale, a Firenze invece con più di un secolo e mezzo di pausa dalla fine del 700 con i Lorena, fino al 1930 con l’avvento del Ministero della Cultura Popolare con cui è stato riportato in auge questo gioco, purtroppo si è perso quella che era la fondamentale tradizione orale delle regole e dei modi in cui veniva in origine praticato. Nel 1930 chi ha avuto il compito di reintrodurre il gioco del calcio fiorentino, si è trovato ad applicare quelle che sono le regole del Bardi del 1688, ispirandosi alle iconografie, alla storia trovata scritta, ma non ai dettagli che riportano come era un tempo. Nel 1930 si decise di prendere giocatori di pallone e quelli della palla a mano perché nelle regole era previsto anche la possibilità di tirare il pallone con il pugno chiuso. Non si capisce poi perché abbia preso il sopravvento questo modo di giocare fatto solo dell’uso delle mani, nonostante il gioco si chiami “calcio”. Se fosse stato solo ed esclusivamente giocato con le mani penso sarebbe stato più appropriato chiamarlo “pugnata”. Dopo la guerra ci fu il regolamento che previde l’introduzione dei rugbisti e degli atleti della lotta greco romana, per arrivare poi alle figure dei pugili. Definendo sempre nuove regole, siamo arrivati alla conseguenza che il calcio che viene giocato ora, da un punto di vista prettamente storico, non è più il calcio fiorentino.

Nel libro su Piazza della Repubblica si parla anche di un Palio fiorentino che veniva corso “alla lunga”, come mai secondo voi si è persa nel tempo questa tradizione?
L: Perché ora come ora sarebbe impossibile da praticare in città. I cavalli partivano da quello che è tutt’oggi chiamato Ponte alle Mosse, dove appunto veniva data la Mossa, mentre la riparata era in piazza San Pier Maggiore all’altezza della chiesa. Era un palio molto sentito e non ci scordiamo che a Firenze avevamo anche il Palio della corsa dei Cocchi.

R: Quello dei Cocchi, era un Palio alla tonda e si correva in piazza Santa Maria Novella il giorno prima di San Giovanni con i quattro quartieri e i loro colori che si cimentavano nella gara a due per volta, fino alla proclamazione in finale del vincitore.

Tornando alle Piazze, sempre qui in Piazza della Repubblica, ci troviamo davanti a quella che è la famosa colonna che segna l’incontro tra il cardo e il decumano dell’antica fortificazione a base romana. Possiamo dire quindi che l’attuale piazza della repubblica si a un po’ il cuore della vecchia Firenze?
L: Più che cuore direi l’ombelico di Firenze. Questo era proprio il centro antico ecco perché al Poggi gli si perdona male lo sventramento di queste strade. Oggi tutto questo con la cultura del recupero non sarebbe stato permesso. Le sette chiese più antiche di Firenze con l’adattamento della città a capitale del Regno d’Italia sono state perdute, come si sono persi anche tanti palazzi storici e le antiche torri. Certo c’erano anche tanti tuguri, ma ripeto che con il criterio di adesso si sarebbe fatta un’operazione chirurgica e si sarebbe salvato almeno l’80% di quello che era presente. Si può dire un po’ malinconicamente, che questa qui rimasta è la stessa colonna del’abbondanza, da cui partiva anche la suddivisione dei quartieri.

R: All’altezza di via Por Santa Maria, all’angolo con via Vacchereccia è presente nel marciapiede un vetro cemento da cui è possibile vedere quella che era l’antica strada romana con sopra impresse addirittura le impronte dei carraggi. Fino a qualche anno fa in via Calimaluzza dando una mancia al portiere si poteva accedere alle cantine e vedere tutto, ora invece è necessario chiamare l’amministratore del condominio e fissare un appuntamento, ma è una procedura molto complicata. Sarebbe bello in effetti poter mostrare questi antico cimelio, sostituendo il vetrocemento con un cristallo che renda tutto ben visibile, illuminato e magari supportato da una descrizione a riguardo.

Passando dalle tradizioni attraverso la storia vi chiedo, quale è la vostra piazza fiorentina preferita e perché?
R: Per quanto mi riguarda devo dire che sono molto affezionato a piazza Santo Spirito e all’Oltrarno che oggi considero ancora la parte vera di Firenze. Quella dove ci troviamo noi ora, ovvero Piazza della Repubblica, è molto alterata e affetta da globalizzazione. Si può dire che ormai abbia perso gran parte della sua personalità, mentre l’Oltrarno invece sta cercando di resistere, con gli artigiani, le botteghe e con le piccole attività, preservando quella tipicità che rende unica la città di Firenze.

La sua invece?
L: La mia piazza preferita invece è Piazza della Signoria, perché è una piazza anomala e allo stesso tempo ricchissima di storia, composta da due piazze distinte, tenute insieme dalla fontana del Biancone. Scelgo questa piazza anche perché nasce dalla distruzione dei palazzi dei Ghibellini tutti rasi al suolo e considerata allora territorio maledetto al punto da averla come  riportano le cronache, cosparsa sale perché non vi crescesse più nemmeno l’erba. Amo questa piazza perché porta con se mille segreti ed un fascino magico tutto suo.

Si diceva, riallacciandomi all’Oltrarno, come riesca a resistere la figura dell’artigiano che invece dalle parti del Duomo e Repubblica, soccombe rispetto alla forza del turismo di massa. Cosa pensate voi della volontà di Brand e Marchi di moda che vengono dall’estero, con il fine di esportare i loro prodotti nel centro delle città storiche italiane?
R: Per come la vedo, vengono a snaturare quello che è l’equilibrio della città. Questi grossi gruppi, questi grossi Brand, non capiscono che Firenze ha una ricettività diversa da New York da Londra o Tokyo. Non condivido la scelta di aprire così facilmente le porte della città a queste realtà. Fosse per me non concederei loro le autorizzazioni necessarie a procedere.

Simboli di Firenze sono il Marzocco e il Giglio…
L: Simbolo per antonomasia è il Giglio, che nasce bianco in sfondo rosso sino al 1251. Con la cacciata dei Ghibellini che portano via il Gonfalone, i fiorentini poi non rinunciarono al loro simbolo e fu così che invertendo i colori venne adottato l’attuale Giglio rosso su sfondo bianco. Secondo simbolo è il Marzocco, ovvero il leone che tiene con la branca destra lo scudo con il giglio rosso. Il nome Marzocco viene da Marte. Non dimentichiamoci che prima del Battista, i fiorentini erano devoti nel paganesimo al dio Marte e il tempio in suo onore si ergeva proprio dove ora sorge l’attuale Battistero. Ci sono poi altri simboli, propri della città, come lo scudo dimezzato bianco e rosso del Comune, l’icona dei Capitani del Palagio di Parte Guelfa, la croce rossa del popolo su campo argento, lo stemma del Priore di libertà con la scritta Libertas in oro posta in banda in campo azzurro e infine anche la bandiera della Repubblica Fiorentina, formata da una croce bianca in campo rosso. Colori ricorrenti il bianco e il rosso, che derivano dal “palato” dello stemma del Duca di Toscana.

Ogni libro si chiude con un detto fiorentino e con una ricetta di cucina toscana. Questo richiamo è un voler rendere omaggio al vostro antenato Pellegrino Artusi, autore del libro “la Scienza in cucina e l’Arte di mangiare bene”?
R: Si, questa è una particolarità che ormai in casa nostra esiste da sempre. Fin da piccolo mi ricordo che si parlava sempre di questo personaggio, Pellegrino Artusi, delle ricette e della cucina. Anche mio babbo ne ha sempre parlato attraverso i miei nonni e pertanto devo dire che c’è un piacevole cenno a questo legame che ci unisce nel tempo, a distanza di generazioni. Personalmente mi diletto anche nel preparare qualcosa del Pellegrino e spesso vengono fuori realizzazioni niente male.

L: Abbiamo sempre in famiglia vissuto all’ombra di Pellegrino Artusi, ma non è stata un’ombra spiacevole anzi tutt’alto. Mi ricordo fin da piccolo che anche la Maestra a scuola mi chiedeva se ero parente del famoso gastronomo. In casa avevamo il ritratto con la barba e i favoriti candidi del nostro antenato, che ad essere sinceri da piccoli incuteva anche una certa soggezione. Pellegrino è stato un personaggio che oltre a mettere gli italiani a tavola per la gola, li ha uniti anche per la lingua. Pensare che il suo libro fu adottato in alcune situazioni anche come libro di testo è qualcosa di straordinario. La pubblicazione della prima edizione a cui nessuno era interessato, fu pagata interamente di tasca propria da Pellegrino Artusi, riuscendo poi a venderla non solo a Firenze, ma in tutta Italia. Il primo commercio per posta attraverso contrassegno avvenne proprio con questo libro.

R: Il tutto partì da Piazza d’Azelio 25, oggi 35, dove insieme alla governante Marietta Sabatini di Massa e Cozzile e il cuoco Francesco Ruffilli di Forlimpopoli, Pellegrino Artusi, mette su questa piccola impresa letteraria, ricevendo le ordinazioni per lettera e organizzando così in tutta Italia questa “distribuzione” fatta in casa, tanto che fu necessario procedere subito ad una seconda edizione del libro. La particolarità della prima edizione rispetto alle successive è la dedica dell’autore ai suoi gatti, Biancani e Sibillone, dedica che già dalla seconda ristampa non si ripete più. Tornando ai collaboratori di Pellegrino, questi due erano così legati a lui che erano presenti addirittura nello stato di famiglia

L: Sibillone non era solo il nome del gatto di Pellegrino Artusi, ma era anche un gioco di intellettuali tipico dell’Ottocento, dove i partecipanti si riunivano e fissavano un argomento di conversazione. Dopo che questo era stato scelto, entrava nella stanza una persona esterna che pronunciava una sola e semplice parola, come ad esempio “paglia”. Ognuno dei presenti doveva sforzarsi di ricollegare dalla “paglia” l’argomento scelto, attraverso uno svolgimento logico attinente. Vinceva alla fine chi aveva realizzato il collegamento più coerente tra i tanti.

Per chiudere, sul sito internet che ricollega alla vostra attività, troviamo il detto che recita: “Amo il bello e il buono ovunque si trovino e mi ripugna di vedere straziata come suol dirsi la grazia di Dio”.
R: E’ proprio il motto di Pellegrino Artusi

Come si può estendere questo motto alle future generazioni?
R: Con l’attenzione e un grande rispetto a 360 gradi delle risorse che abbiamo a disposizione. Dobbiamo avere la consapevolezza che tutte queste disponibilità non sono infinite.

L: Un ottimo modo di tramandare questo detto, può avvenire attraverso la consapevolezza e il rispetto del cibo. Questa caratteristica è molto considerata dai fiorentini che si dice usino spendere con i gomiti, tanta è la parsimonia che viene attribuita. Pellegrino chiamava giustamente il cibo grazia di Dio, per cui se avanzava qualcosa che poteva essere riutilizzata, questa non doveva per niente al mondo essere sprecata. Per chiudere ogni libro della collana abbiamo infine usato alcuni modi di dire dei quali siamo riusciti a trovare l’origine, riuscendo a inserire così vere e proprie perle di fiorentinità.

Testo ed intervista a cura di Simone Teschioni
Le foto storiche presenti nel testo sono state fornite dall’archivio di Luciano e Ricciardo Artusi. Le fotografie più recenti e attuali sono a cura di Mauro Sani.
©Levento


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